7 novembre 2012

Dark Shadows


Ci sono talmente tante cose da dire su questo Dark Shadows che non so da dove cominciare. La prima cosa da cui si viene catturati è l’ottima interpretazione di Johnny Depp che, finalmente, esce dalle sue caratterizzazioni esagerate (il Cappellaio Matto e l’ormai assuefatto Capitan Jack Sparrow, per citarne un paio) e torna a regalarci una performance toccante, sì divertente ma piena di sentimento. Ad affiancarlo un cast di comprimari veramente fenomenali, con l’immancabile Helena Bonham Carter (che ormai non sbaglia un colpo), la veterana Michelle Pfeiffer (alla sua seconda collaborazione con Burton, fantastica come sempre), la sensuale Eva Green (in una delle sue performance tanto fisica quanto umana), l’eccentrica Chloe Moretz (che qui aggiunge una nuova carta freak al suo mazzo di personaggi surreali) e tutti gli altri attori.
Tanto di cappello al cammeo di Christopher Lee (fu Dracula sotto le cure di Terrence Fisher) e del defunto Jonathan Frid (il Barnabas Collins della serie televisiva, morto poco prima che il film uscisse nelle sale). Ciò che colpisce dei personaggi, oltre al fatto che tutti si muovono secondo ragioni ben precise, è il vederli nel posto più consono a loro: Elizabeth Collins, la matriarca della famiglia, è sempre sulla scala principale di Collinwood, pronta a tirare le fila e a rimediare ad ogni piccolo capello fuori posto. Sua figlia Carolyn è sempre in camera sua, alle prese con problemi più o meno adolescenziali. La dottoressa Hoffman è nel suo studio a compiangersi per la giovinezza perduta ascoltando i problemi degli altri. Perfino Angelique è al suo posto, sempre dalla parte opposta rispetto alla famiglia Collins. È l’arrivo della babysitter Victoria (interpretata dalla dolce Bella Heathcote) a sottolineare questo tema, poiché è proprio lei che, per prima, va alla ricerca della sua meta reale. Sono tutti al loro posto, tranne Barnabas, un vampiro del diciottesimo secolo che non riesce a trovare la sua locazione in un’epoca che non gli appartiene (emblematica la ricerca di un posto dove dormire, prima a testa in giù, poi in un armadio e, infine, all’interno di uno scatolone) e costretto in un corpo dalle fattezze demoniache, che repelle la luce del sole e non si riflette allo specchio, che per sopravvivere deve nutrirsi di sangue umano. Ad evidenziare ancora di più tutto quanto ci pensano i costumi, il trucco e le scenografie, che mettono in scena una Collinsport invitante e repellente allo stesso tempo, completamente al servizio delle scelte registiche di Tim Burton che, con il suo stile, omaggia spesso l’espressionismo tedesco (gli artigli alla Nosferatu di Depp sono il più chiaro esempio, in questo caso). Colpisce anche l’assente presenza del compositore Danny Elfman, che non compone niente di memorabile per questa pellicola, la quale verrà ricordata più per le canzoni riprese dagli anni ’70 che per qualche particolare tema musicale in pieno stile Burtoniano. Inoltre, nonostante la sceneggiatura e il montaggio scricchiolino qua e là, soprattutto per alcune scelte di pura forma commerciale al fine di un potenziale seguito, il regista di Burbank riesce a mettere insieme un piano di regia al completo servizio della storia, che diverte e appassiona al tempo stesso. Sebbene i tratti tipici del cinema di Tim Burton non manchino, come non mancano nemmeno le numerose citazioni al cinema di genere, da quello più classico a quello più commerciale, questa sua ultima fatica resta comunque un lavoro ricco di originalità e pienamente convincente, al quale non basta qualche piccolo buco di sceneggiatura per crollare.


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