12 novembre 2012

Paradiso Amaro


La vita ci riserva sempre delle sorprese, a volte piacevoli e a volte no. Molto spesso, però, non siamo capaci di cogliere ciò che ci viene offerto di buono, mentre i colpi bassi sono sempre più evidenti e vengono incassati con maggiore violenza. La storia di Paradiso amaro, come suggerisce il titolo (The descendants in originale), parla proprio di quanto sia difficile accusare gli attacchi meschini della vita, senza essere in grado di rispondere a tono. Dalla trama potrebbe sembrare una commedia leggera e piena di retorica, ma non è affatto così. Alexander Payne dimostra per l’ennesima volta di essere uno dei registi più diretti e sensibili degli ultimi anni, soprattutto perché non si piega a banali sentimentalismi e racconta le “disavventure” dei propri personaggi gettandole sullo schermo nude e crude così come potrebbero capitare ad ognuno di noi.
Riesce a creare un incastro perfetto tra sceneggiatura e regia, la prima calibrata e studiata a dovere, la seconda al servizio della prima. Il film non rallenta mai il suo ritmo costante, e accade sempre qualcosa che rende la storia interessante. Perfino le due figlie di Brian ci vengono presentate in due momenti differenti del racconto, quasi come se Payne mettesse di fronte allo spettatore un problema alla volta, senza volerlo caricare troppo fin dall’inizio. Elizabeth, Scottie, Alexandra, nonno Scott (un ritrovato Robert Forster), una cosa per volta e, piano piano, il regista ci mostra il microcosmo di un Brian King pieno di problemi che non ha il coraggio di affrontare, o che semplicemente non si rende conto di avere finché questi non si presentano bruscamente nella sua vita. Una commedia particolare come è stato L’ospite inatteso tempo fa, nelle quali si sorride, certo, ma quasi con vergogna, come se divertirsi alle leggere battute del film ci mettesse a disagio visti i temi forti che si stanno trattando. A rendere il tutto ancora più triste ci si mette anche la fotografia di sterile delle sequenze d’ospedale e quella fredda degli ambienti interni ed esterni curata da Phedon Papamichael, che illumina paesaggi tristi e malinconici, sempre in ombra o penombra e con un cielo spesso annuvolato. Immagini, queste, che ribaltano il concetto di Hawaii che si è inculcato nell’immaginario collettivo dell’essere umano. Anche la bellezza degli abitanti di queste isole è un’idea che viene ribaltata, non solo dai numerosi cugini di Brian, ma anche (e soprattutto) dall’amante di Elizabeth, interpretato da Matthew Lillard (lo Shaggy di Scooby Doo), non proprio il classico surfista muscoloso, biondo e con gli occhi azzurri. Tutto questo per mostrare un lato misterioso di un mondo che è sempre stato dipinto come un paradiso fantastico, genuino e incontaminato ma che, in realtà, è come tutti gli altri posti della Terra, ovvero problematico, a volte tetro e triste… amaro, appunto. Nota di merito a George Clooney, che ritorna al suo meglio superando la buonissima prova in Tra le Nuvole di Jason Reitman e si riscatta di tutte quelle malelingue che lo consideravano un sex symbol incapace di grandi performance. Paradiso amaro è una delle pellicole più intense del 2011, capace di raccontare uno spaccato di vita in maniera diretta e personale, senza le edulcorazioni che spesso al cinema fanno storcere il naso, e di rimanere impressa nella mente dello spettatore proprio per la sua naturalezza, per la sua semplicità e per la sua incredibile capacità di avvolgere il tutto con una patina di speranza e positivismo, del quale molto spesso ci si dimentica di aver bisogno.



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