28 febbraio 2013

Prigionieri dell'Oceano

Dopo tanto tempo si torna a parlare del maestro per eccellenza della cinematografia, colui che ha avuto l'onore e l'onere di attraversare i due cambiamenti più importanti della storia della settima arte, ovvero il passaggio dal muto al sonoro e quello dal bianco e nero al colore. Stiamo ovviamente parlando del grande Alfred Hitchcock, dalle quali mani non faticano ad uscire capolavori quasi ogni volta che grida "azione". Ma stiamo divagando e il rischio di finire nel tunnel del fanboy è dietro l'angolo, per cui lasciamo perdere tutti questi discorsi introduttivi e dedichiamoci subito al film in questione, ovvero Prigionieri dell'Oceano, pellicola che per essere compresa appieno va contestualizzata. Era il 1944 quando il film fece la sua comparsa nelle sale cinematografiche per la prima volta e la II Guerra Mondiale non era ancora finita, per cui lo stato Americano necessitava di film di propaganda patriottica fortemente contro i tedeschi, considerati il nemico più spietato a quel tempo.
Approcciarsi a questi film ora, nel 2013, è particolarmente straniante se non si pensa per prima cosa a questo elemento, importante per poter apprezzare il contenuto del film. Se però tralasciamo la componente tematica la pellicola risulta comunque un prodotto eccezionale grazie al modo in cui Hitchcock sfrutta l'angusto spazio di una scialuppa di salvataggio capace di contenere ben poche persone, in netto contrasto con la vastità inutilizzabile di un minaccioso oceano. Alla sceneggiatura che ha la firma di Jo Swerling (il quale si è ispirato ad una storia di John Steinbeck) si devono i meriti di un ritmo ben studiato, capace di altalenare momenti di suspense a momenti di angoscia, senza mai dimenticare la componente emotiva e dando sempre la massima attenzione alle emozioni e alle sensazioni dei personaggi, in particolare ai rapporti di affinità e di sfiducia che si creano all'interno di un'equipaggio improvvisato per necessità. Interessante poi vedere come gli effetti speciali dell'epoca si notino ma non infastidiscano lo spettatore, anzi facciano in modo che rimanga esterrefatto di fronte all'abile modalità con la quale Hitchcock è riuscito a giostrare fondali e vera acqua e a ricreare un realistico moto del mare utilizzando solo una piccola barchetta come unico set. Claustrofobia e agorafobia si incontrano nel bel mezzo del mare e all'interno di una bagnarola dove l'uomo è l'unico nemico e dentro la quale nessuno riesce a fidarsi dell'altra fazione nonostante l'oppressione di un pericolo maggiore che sarebbe molto più facile da scongiurare se tutti lavorassero assieme; il montaggio firmato da Dorothy Spencer enfatizza tutto questo, in particolare i momenti di suspense legati all'intrigo da scoprire. La fotografia di Glen McWilliams e di Arthur C. Miller riesce inoltre ad enfatizzare il realismo e l'orribile ingiustizia della natura grazie ad eccezionali tempeste e a cocenti luci diurne in contrasto con i tranquilli momenti notturni (il film era stato interamente girato in studio, all'interno di una vasca), ma sempre dispersi in mezzo ad un mare maligno e cinico, ad un oceano sadico e perfido, che non risparmia nessuna delle pene previste per i naufraghi, togliendo loro prima i beni più superflui, poi i viveri ed infine, ad alcuni di essi, anche qualche arto o addirittura la vita. Tragico, drammatico e crudele, questo film è stato candidato a tre premi Oscar, Miglior Regia, Miglior Fotografia in Bianco e Nero e Miglior Storia Originale, tutti rubati da altre pellicole. Ciononostante Prigionieri dell'oceano è uno dei migliori lavori del Maestro che più avanti si farà notare per altri progetti uno più bello dell'altro. Se non avete mai sentito parlare di questo film è bene che lo recuperiate per ritrovare un vecchio modo di fare cinema al giorno d'oggi spolverato da pochi ma ogni volta sempre efficace.


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